Bastano due giorni di seguito di sole, il mese di aprile, abitare nel sud e dici, come nella canzone, l’estate è già qui. E in realtà ci sei veramente nell’estate perché l’inverno non tornerà: la sequela delle piogge e dei venti, le temperature da brividi, la luce breve di giornate brevi. Non tornerà, salvo che per qualche giorno in questo anomala Primavera.
Oggi è uno di quei giorni e, come se la stagione invernale appena dietro l’angolo fosse invece lontana come nel mese di agosto, provo un sottile appagante piacere a chiudere di nuovo balconi e finestre, riaccendere il camino non ancora definitivamente ripulito per l’estate, attrezzare il divano di libri, telefono, giornale, computer, sedermi vicino alla fiamma ed iniziare un breve pomeriggio che presto cederà a una lunga sera, complice un cielo cupo di pioggia, di assoluto far nulla.
E naturalmente un tè, bello caldo, aromatico, corposo. Un tè Chai, nero con tante spezie: cannella, zenzero, cardamomo, chiodi di garofano, grani di pepe. Ha un colore, di montagna, di sottobosco, di baite di antico legno, di intimità. Il profumo che si sprigiona avvolge l’angolo del camino, entra nella mente prima che nelle narici e sa di vento.
Ho letto che in India venditori ambulanti lo offrono per le strade. Immagino questa scena nelle nostre città: un uomo dalla pelle bruciata che in pieno gennaio quando non ci sono piumini e guanti e sciarpe che ti difendono dal gelo che penetra nelle ossa, ti offre una ciotola di tè bollente e tu gli dai una moneta, e il calore passa dalle sue alle tue mani, il sorriso dai suoi ai tuoi occhi e con il primo sorso si cancella la stratificata diffidenza e paura dell’altro e ti metti a parlare con lui e vi capite chissà come malgrado le lingue siano diverse perché le cose che vi dite non hanno bisogno di parole, e poi lui va, con la sua ciotola calda, verso un altro e tu a quello fai cenno di sì, di prenderlo quel tè perché è buono e lui capisce che non stati dicendo solo del tè.
Verso nella tazza il mio Chai e penso che la scena che ho immaginato è un’illusione come questo pomeriggio di finto inverno che sto inventando fra tè e camino.
Sulla esigua pila di libri che ho accanto si trova Nuvole di Clément Gilles. L’ho comprato proprio lo scorso inverno e l’ho solo sfogliato un po’. L’ho comprato su invito di Annalisa che ama molto questa opera e me ne ha parlato in modo accennato (un uomo di giardini ma anche di mari, un diario di una traversata oceanica, un’attenzione costante al cielo, un rincorrersi di cirri nembi cumoli, un mondo tutto protetto dalla volta celeste, una vaghezza mutante inafferrabile, uno sguardo lontano) così come sempre è accennato – fra la premura e il riserbo – il porsi di Annalisa verso gli altri, il suo svelarsi in modo leggero e molteplice, il suo guardare in alto dove le nuvole sono di ogni forma e basta saperle leggere.
Penso a quanto ci ha tenuto lontane questa epidemia, penso che mi piacerebbe avere ora qua, accanto al camino, mia figlia e sfogliare con lei il libro e il cielo che appare dai vetri del balcone chiuso, offrirle una tazza di tè, che peraltro a lei non piace, e vedere che accetta la tazza e la tiene fra le mani senza bere accogliendone il calore che passa da me a lei da lei a me come con il venditore indiano e sapere che questa intesa non è un’illusione, ma una bella consolidata realtà.
Patologia: confusione meteorologica
Terapia: una calda tazza di tè Chai da tenere tra le mani (bere o no, a piacere), uno sguardo alle nuvole dai vetri del balcone e uno alle pagine delle Nuvole di Gilles.