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Falcone fu ucciso quando fu chiamato al Ministero della Giustizia. A riprova che la criminalità teme più la sfida sul piano del potere che non la repressione

Ore 17.57 del 23 maggio di ventinove anni fa. L’asfalto dell’autostrada A29 è divelto dall’esplosione di duecento chili di nitrato d’ammonio, tritolo e T4 per mano di Giovanni Brusca. Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini di scorta perderanno la vita quel giorno.

Il rischio della commemorazione, da quasi trent’anni, è sempre quello di trasformare quelle vittime, e quelle che ad esse si uniranno meno di due mesi dopo nella strage di via D’Amelio, in icone pronte all’uso. Buone a spargere benedizioni e auree di sacralità sui beneficiari contemporanei, ma mute come statue.

Mai sazia di quelle benedizioni, l’antimafia è stata di recente travolta da scandali, e la magistratura stessa se la passa male assai, incrinata com’è nella sua credibilità. Eppure, a tirarlo giù dal piedistallo, a prenderlo sul serio, Giovanni Falcone avrebbe diverse cose da raccomandare ancora.

Primo, il rigore: Falcone era un garantista. Le sue indagini resistevano a qualunque verifica perché era egli stesso il proprio più severo critico. Non gli bastava la parola di un pentito, il venticello di calunnia che attraversava il sentito dire, o il gusto sempre in agguato di detronizzare un potente. Cercava riscontri, Falcone. Li trovava, li incrociava. Un abisso a fronte dalla politica dell’avviso di garanzia che ingloriosamente gli sopravvive.

Secondo, Falcone rifuggiva la ribalta. Un po’ timido, un po’ prudente, scansava ogni spettacolarizzazione e lasciava parlare i propri atti. Un altro abisso, a confronto della ribalta oggi spesso ricercata, coltivata e mantenuta.

Terzo, ciò che volentieri si dimentica. Quando fu ammazzato, Giovanni Falcone non esercitava la funzione giurisdizionale ma era dislocato presso il Ministero della Giustizia, ad affiancare l’azione del governo. È in quella posizione che la mafia lo volle morto. A riprova del fatto che la criminalità organizzata teme più la sfida sul piano del potere, quella che solo un governo forte può imporre, che non la repressione.

Sarebbe bello ricordare il trentennale da quella strage, l’anno venturo, tralasciando l’eroe e restituendo parola all’uomo. Sarebbe bello diventare, come amava ripetere, quel Paese beato che non ha bisogno di eroi.

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