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Capinere e cardilli

Vediamo se c’è anche stamattina. Poggio il vassoio con il tè sul tavolino accanto al balcone. Il cielo celeste (ne avrà di ore per cangiare in tutte le sfumature fino a raggiungere il blu della notte), in lontananza il mare che solo apparentemente sembra rifletterne i colori sviando invece in tonalità tutte sue, nel mezzo il degradare di tetti, di fronte il noce selvatico.

E sì, poi c’è lui. Anche questa mattina con il suo assolo. Scruto ben sapendo che sarà difficile scoprirlo. Un ramo sembra scuotersi più degli altri, ma successivamente il fremito passa al vicino e poi a quello sottostante e a quello in alto. Ma è solo un refolo di vento. Rincorro la direzione ambivalente del canto, ma è solo il refolo che soffia.

Verso il tè nella tazza che sprigiona un profumo dolce tra il floreale e il fruttato, da gustare così senza aggiungerci niente,  generoso e appagante. Completo. O forse no, forse se non ci fosse questo cinguettare sonoro, queste note indecifrabili e segrete che si intrecciano con le note del tè, la sinfonia non si comporrebbe. Chiudo gli occhi e quando li riapro mi sembra di cogliere un frullio di ali che subito dilegua.

Il primo giorno in cui ha fatto compagnia al mio tè lo riconobbi come fringuello, successivamente come pettirosso. Poi mi convinsi fosse un cardellino. E lessi in questo un inevitabile percorso del destino.
Nella mia vita ci sono stati infatti tre cardilli. Il primo, nella mia infanzia, quello del Giardino segreto, compagno di Dikon e di Mary, svelatore di chiavi e misteriosi giardini, guardiano di passaggi e cambiamenti. Inseguendolo ho riconosciuto la via lunga dell’amore per la lettura. 

Costrinsi mio padre a procurarmelo un cardellino. Gli preparammo una gabbietta che Papà scovò in cantina, fatta di assicelle di legno, lo chiamai Dikon. Infilavo l’indice, più sottile del sottile spazio, fra un’assicella ed un’altra, ma lui non si avvicinò mai, né tanto meno vi si poggiò mai. Però rispondeva ai discorsetti che gli facevo e alle mie domande con un allegrissimo canto. E ancora oggi sono convinta che ci intendevamo noi due. E fu per questo che quando morì, malgrado Papà cercasse di evitarmelo, lo volli fra le mani. E mi ricordo di una rigidezza, di un freddo, di un silenzio che non avevo ancora sperimentato e non trovai neanche una parola. E costrinsi Gabriella che per avere due anni meno di me facilmente mi assecondava e si lasciava convincere, a scrivere una poesia Oh, Dikon come son contenta/ da quando sei venuto a casa mia/ tu salti canti/ e porti l’allegria….

Il terzo cardillo di cui mi innamorai, fu quello addolorato di Anna Maria Ortese. Anche io ne subii la seduzione fra il fascino e l’orrore, come tutti i personaggi dell’intricato racconto. Il  cardillo, chiave oscura della vita e del destino degli uomini. Portatore di effimera felicità e di perdurante acerbo dolore per Elmina che causandone la morte ne causò anche quella della piccola sorella Floridia che pur avendo pochi anni aveva maturato la capacità di morire d’amore. Quella fine diede inizio ad una sequela di sofferenze sulle quali aleggia la presenza assente del cardillo che sembra ripetere con il suo glu-glu che la felicità è male e che pertanto anche quando timidamente si prospetta bisogna rifuggirla.

Fuggono in una dimensione onirica, fra la realtà e il sogno, in un modo o nell’altro, tutti i protagonisti della storia raccontata dall’Ortese con una complessità e un linguaggio aristocratico e letterario sottolineato da alcune espressioni dialettali. Chi lo ha incontrato anche solo una volta il cardillo Dodò di Annamaria Ortese non potrà più credere nell’innocenza della vita. 

Quando arrivo proprio al fondo della mia tazza ecco che compare. Sul ramo più alto. E’ piccolissimo, grigio con il capo più scuro. Si svela e si esibisce nel suo assolo che zittisce rondini e fringuelli e pettirossi…e cardilli.

Piumaggio grigio, pochi centimetri, sottile, testa nera: non posso barare: non è un cardellino ma una capinera.“Il principe Ingmar Neville aveva disposto che lo facessero entrare (il cardillo) qualora fosse giunto e quando infine arrivò, lo accolse, senza sapere chi fosse. Benedisse il cardillo che arrivava, e finalmente gli avrebbe spiegato tutto: la follia e la separazione, il dolore e questa gioia che…Avevo detto capinera? No, ora ne sono certa. È un cardillo.

Patologia: predisposizione verso leggere forme di allucinazione
Terapia: un tè profumato e sonoro, quasi una melodia. Libro: naturalmente vi sarà venuto il desiderio, se già non lo avete fatto, di leggere Il cardillo addolorato di Anna Maria Ortese. Se siete in vena nostalgica, Il giardino segreto di Burnett. Se invece preferite restare nel presente Il cardellino di Donna Tartt, del quale non abbiamo parlato. Voi intanto leggetelo, poi ne diremo.

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