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Tattiche cinesi

Lo stretto di Taiwan ha attirato di nuovo l’attenzione della stampa internazionale grazie alle pressioni cinesi su Taipei, accompagnate dalle muscolari dichiarazioni del Presidente Xi Jinping, e grazie alle risposte ferme dell’amministrazione Biden a favore del governo dell’isola di Formosa.

Le ultime settimane hanno visto un generale aumento della tensione da entrambe le parti. Abbiamo provato a descrivere ed analizzare i contorni delle relazioni tra USA e PRC e come Beijing stia acquisendo le potenzialità per diventare un competitor globale di Washington. In particolare, abbiamo evidenziato come l’Indo-Pacifico sia strategicamente cruciale per l’ascesa della Repubblica Popolare e constatato che l’autorità cinese nella regione è ancora non completamente consolidata.

Beijing lo sa e lavora per conquistarla. Come? Innanzitutto, la Cina non gioca con i tempi dell’Occidente: la strategia è di ampio spettro e di lungo respiro, ed include diversi strumenti. Si tratta della cosiddetta Salami slicing strategy, che punta ad incrementare la posizione di forza della Cina attraverso una serie di azioni a più livelli che conducono verso piccoli avanzamenti strategici con l’obiettivo di lungo periodo di invertire i rapporti di forza e sopraffare l’avversario. Particolarità di tale strategia è la sua flessibilità, nonché la sua capacità di costringere l’avversario a scegliere se accettare di subirla o di rischiare il tutto per tutto in un conflitto.

Un esempio concreto di tale strategia è declinato nelle tattiche portate avanti lungo la controversa nine-dash-line nel Mare Cinese Meridionale: ci riferiamo ai numerosi casi registrati negli anni (già dal 2010) dalle autorità filippine, vietnamite, sudcoreane e giapponesi di pratiche illecite condotte dalla marina mercantile e dalla guardia costiera cinese.

Si tratta di sconfinamento e pesca illegale nelle Zone Economiche Esclusive (ZEE) degli Stati limitrofi, tra l’altro operato spesso da milizie paramilitari con navi di pescatori-soldato, scortate dalle forze del PAP (People’s Armed Police). La flotta cinese di pescherecci si è infatti trasformata negli anni in una vera e propria milizia navale sotto il comando del Consiglio di Stato e della Commissione Militare Centrale, seguendo la scia di riforma e modernizzazione dell’intero apparato militare.

L’utilizzo di forze paramilitari ha come scopo ulteriore quello di scoraggiare un intervento di risposta formale. Utilizzare la marina militare contro “semplici” pescherecci risulterebbe infatti un uso sproporzionato della forza e scatenerebbe la controreazione cinese.

Lo scopo di tale tattica è chiaramente quello di consolidare un diritto autoproclamato (e internazionalmente non riconosciuto) sulle acque e le risorse del Mare Cinese Meridionale. Inoltre, la China Coast Guard Law, dal 22 gennaio scorso, regola le attività della nuova Guardia Costiera e ne sancisce unilateralmente l’autorità sopra le zone contestate lungo la nine dash line, autorizzando la CCG all’utilizzo della forza per difendere la sovranità cinese in quelle acque.

Lo stesso scopo di consolidamento della sovranità viene perseguito attraverso la pratica del pedinamento marittimo (vessel shadowing), una tattica non nuova agli Stati ed applicata in casi di sconfinamento o attraversamento non spedito delle acque territoriali. Proprio lo scorso 5 ottobre, presso le Scarborough Shoal, territorio reclamato da Manila ma amministrato da Beijing, la marina cinese ha dispiegato dei vascelli non identificati per monitorare le operazioni congiunte condotte dai carriers strike groups statunitensi ed alleati.

E’ dal 2015 che la Cina dispiega regolarmente le proprie navi, eseguendo simili manovre per contrastare la presenza straniera all’interno della reclamata nine-dash-line. L’ultimo anno ha visto intensificare gli sforzi di Beijing per consolidare ulteriormente le proprie rivendicazioni nell’area, soprattutto nello Stretto di Taiwan e nelle nuove isole artificiali costruite a più di 500 miglia dalle coste cinesi, come è possibile visionare nelle immagini e mappe realizzate dall’Iniziativa per la trasparenza marittima in Asia.

Al largo di Indonesia, Brunei e Filippine si trovano diversi gruppi di piccoli atolli ed arcipelaghi, reclamati dai diversi Stati della regione. Beijing fino ad ora è riuscita a conquistare e terra-formare diverse tra le 250 isolette presenti complessivamente nell’area, prendendo dominio di 20 punti di controllo avanzato nelle isole Paracelso e 7 nelle isole Spratly. Dal 2012, attraverso la presenza costante della guardia costiera, la Cina ha preso possesso anche delle Scarborough Shoal.

Le isole, originariamente composte da banchi di sabbia a pelo d’acqua, sono entrate sotto il controllo cinese attraverso le cosiddette cabbage tactics, ovvero l’utilizzo di una ingente forza militare e paramilitare marittima per circondare, assediare e isolare il pezzo di terra emersa. I banchi sono stati poi ingranditi nel tempo e attrezzati di porti, postazioni radar e di comunicazione, sistemi di difesa a corto e lungo raggio. Inoltre, la presenza di piste di decollo/atterraggio e diversi hangar per aerei da sorveglianza e jet da combattimento rappresenta un ulteriore vantaggio in termini di capacità e rapidità di dispiegamento per le forze militari cinesi.

Beijing pare si stia dotando di strumenti coerenti con le proprie aspirazioni e strategie, come le nuove portaerei in costruzione e i caccia per la electronic warfare J-16D e J-20B, dispiegati lungo i confini caldi nell’Indopacifico e sul continente, costruiti per il nuovo modo di fare la guerra. Sicuramente questo la dice lunga sull’incremento del potenziale tecnologico e militare della PRC e sulla sua strategia di proiezione all’estero che, come riportato in agosto nell’Army Technique Publication (ATP 7-100.3) dell’esercito statunitense, vede nell’elemento marittimo e nel Mare Cinese Meridionale il perno della sua azione.

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