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Sul Martin Eden cinematografico di Pietro Marcello

Di recente ho visto il Martin Eden filmico di Pietro Marcello (Italia-Francia 2019, 129′). Mi ha colpito a tal punto da voler scollinare e scrivere di cinema e letteratura, io che posso dirmi al più un dilettante. Da questa piccola eresia il lettore trarrà le conclusioni che vuole, considerando il mio contributo un indebito arbitrio, oppure cogliendo in esso la grazia ingenua dell’occhio primitivo che legge e osserva.

Per commentare un film di tale levatura, tratto da un romanzo di immensa fortuna storico-critica, bisognava tornare all’edizione originale (Jack London 1908-1909) e alla violenta bellezza di ogni sua pagina. Solo così sarebbe stato possibile comprendere il traslato scelto dal regista: violenza su violenza, bellezza sulla bellezza e la strada, a Napoli negli anni settanta come nella S. Francisco d’inizio secolo.

Dal punto di vista narrativo pellicola e libro corrono lungamente su binari paralleli, ma splendida è la scelta di fare transitare l’acculturazione di Martin per la lingua partenopea, l’unica che poteva reggere il confronto con l’originario slang portuale che il protagonista parla sin dalla nascita e che rappresenta il primo suo limite esistenziale.

Gli sceneggiatori Maurizio Braucci (Gomorra di Garrone, 2008, per intenderci) e lo stesso Marcello calano l’asso linguistico su una intavolatura filmica che dialoga con Mario Martone di Morte di un matematico napoletano (1992) e, più alla lontana, con il recente È stata la mano di Dio di Sorrentino (2021).

Sarà perché il ruolo di Russ Brissenden viene assunto da Carlo Cecchi, che allora incarnava Renato Caccioppoli, trasferendo al personaggio edeniano tutta la sua carica poetica di flaneur baudeleriano per le vie, i vicoli e i salotti partenopei, e un medesimo lucido disprezzo per il post modernismo. Sarà perché il processo di agnizione nel protagonista passa anche qui per il lento scivolare verso un nichilismo asfittico, come unica soluzione al percorso di conoscenza attraverso la vita e lo studio che gli è dato sperimentare, quel sapere di non poter più sapere che chiude libro e film con laconico stoicismo.

Gli autori però vi aggiungono un ingrediente che nell’originale letterario non c’era e che deve essere considerato, ancora una volta, squisitamente partenopeo. Martin Eden assorbe la teoria evoluzionistica di Herbert Spencer attraverso la lettura, è vero, ma di più e maggiormente per il tramite della città. Chi è stato a Napoli nel periodo duro delle lotte universitarie e sindacali degli anni settanta e ottanta può capire meglio il clima irredimibile che vi si respirava.

Quando ci sono arrivato io nel 1984, il centro storico, appena devastato dal terremoto irpino e dal bradisismo di Pozzuoli, era in mano ai camorristi e agli universitari. Quando si usciva la sera si andava quasi esclusivamente al Diamond dogs o al Riot o al Tienamment, dove urlava il sound arrabbiato dei primi gruppi punk e underground. Dentro quei locali lisergici stavamo tutti: operai, studenti, musicisti, attori, poeti, spacciatori, tossici, uappi; schiere di giovani che dividevano i loro giorni tra estenuanti discussioni politiche, torbide trame e amori tossici, sotto una coltre poetica altrimenti impossibile da spiegare.

Eppure, dal vasto catalogo musicale di quegli anni, Marcello seleziona un melodico profondamente anomalo e dissacratore come Daniele Pace degli Squallor, gruppo cult della canzone goliardica partenopea. A lui e a Teresa De Sio spettano i camei, mentre il tessimento sonoro del film è affidato agli ex 99 Posse Marco Messina e Sasha Ricci.

L’individualismo di Martin Eden che si scontra con i movimenti proletari e sindacali nel libro, non contemplava però, non poteva storicamente contemplare, l’altra faccia della contemporaneità partenopea. Una faccia che avevamo letto e visto nella Napoli ‘aperta’ de La pelle in Malaparte-Cavani e che ritorna nell’ultima scena prima della morte del protagonista: il fascismo violento e occulto che nel capoluogo campano tesseva le fila del fallimento d’ogni concreto avanzare della società civile.

Qualcosa che Elena Ferrante ben ci spiega ne L’amica geniale (2011-2014), romanzo e sceneggiato televisivo (Saverio Costanzo-Alice Rohrwacher, dal 2018) che a mio avviso ben rappresenta il trait d’union generazionale degli autori e delle opere qui impropriamente descritti.

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