Press "Enter" to skip to content

Sull’equità fiscale orizzontale

Normalmente, quando si parla di equità fiscale, si ragiona di equità fiscale “verticale”, in base alla quale persone con capacità contributiva minore concorrono in misura minore alla spesa pubblica e viceversa. Esistono diverse scuole di pensiero, ma tutte concordano con il principio della progressività dell’aliquota fiscale media al crescere dei livelli del reddito, allo scopo di ridurre il divario economico esistente tra le varie classi sociali ed effettuare una redistribuzione del reddito a favore delle classi meno abbienti.

I limiti all’interno dei quali le scelte di politica tributaria si collocano sono i seguenti: limite minimo: redditi di sussistenza, fino al quale il livello di tassazione non può che essere pari a zero; limite massimo: un’aliquota percentuale, sui redditi maggiori, che non sia così elevata da rappresentare un deterrente alla produzione di ricchezza, come spiegato dalla Curva di Laffer (1).

Proviamo invece ora a ragionare di equità fiscale “orizzontale”, a domandarci cioè se uguali livelli di reddito vadano tassati alla stessa aliquota, oppure vadano fatte distinzioni in base alla fonte di produzione del reddito stesso.

In finanza, uno dei principi fondamentali e più comunemente conosciuti è quello del rapporto rischio-rendimento: quanto più il mio investimento sarà rischioso, tanto maggiore dovrà essere il mio ritorno atteso dall’investimento stesso. Ad esempio, se da un investimento sul mercato azionario (più rischioso) non mi aspettassi un rendimento maggiore rispetto ad un investimento sul mercato obbligazionario (meno rischioso), io investitore razionale sceglierei sempre l’investimento meno rischioso.

Può lo stesso principio rischio-rendimento essere applicato al mercato del lavoro? Attualmente, se un lavoratore dipendente fa un lavoro più rischioso di un altro lavoratore, questo maggior rischio viene tenuto in conto, e viene remunerato dal datore di lavoro con un premio, solitamente un’indennità per lavoro rischioso o usurante, ed in ogni caso con un salario complessivo più elevato, quindi in linea con il principio “rischio maggiore compensato con un rendimento maggiore”.

Analizziamo invece il caso di due lavoratori che alla fine dell’anno portano a casa la stessa retribuzione lorda complessiva. E’ giusto che entrambi paghino la stessa aliquota media, indipendentemente dal tipo di lavoro effettuato?

Oggi, in Italia, è esattamente così. Che io sia un dipendente pubblico con contratto “blindato”, un dirigente nel settore privato (quindi facilmente licenziabile) o un imprenditore, a parità di reddito lordo mi sarà applicata la stessa aliquota fiscale. Ma è ciò giusto ed equo?

Se riprendiamo il principio rischio-rendimento, dovremmo dare un beneficio maggiore a coloro che hanno portato a casa tale reddito con un’attività più rischiosa, quella dell’imprenditore, dove c’è addirittura il rischio di lavorare tutto l’anno, pagare dipendenti, fornitori e tasse, per poi trovarsi senza utili per poter remunerare il proprio lavoro.

Quindi sarebbe equo – secondo questo principio – che un imprenditore che guadagna 100 beneficiasse di un’aliquota inferiore al dipendente pubblico che guadagna 100. La logica è chiara: anche in una crisi indipendente dal mercato come quella recente dovuta al Covid, il dipendente pubblico porta a casa per intero la propria retribuzione, mentre l’imprenditore è molto probabile che porti a casa un reddito molto inferiore, se non addirittura reddito negativo, ossia perdite, con necessità di ricapitalizzare la propria società.

Vediamo ora il punto di vista dello Stato. Ha lo Stato interesse ad incentivare l’attività imprenditoriale dei propri cittadini rispetto all’attività di lavoratore dipendente? Se in un Paese non vi fosse alcuna impresa, lo Stato non potrebbe esistere. Non vi sarebbe alcuna risorsa economica per pagare i dipendenti del settore pubblico, né vi sarebbe alcun gettito fiscale. E quindi l’intero settore pubblico – che esiste per fornire servizi ai cittadini che lavorano – non potrebbe esistere e mantenersi, visto che viene finanziato per la quasi totalità dalle imposte versate. Quindi la presenza delle imprese è di vitale importanza per ogni paese.

È possibile, con gli elevati tassi di disoccupazione presenti tra i giovani, continuare a considerare come due compartimenti stagni i lavoratori dipendenti e gli imprenditori/lavoratori autonomi/partite IVA?

Non avrebbe lo Stato tutto l’interesse ad incoraggiare i più intraprendenti tra i lavoratori dipendenti e tra disoccupati a rinunciare rispettivamente ad uno stipendio certo ed al reddito di cittadinanza per far partire una nuova attività economica? Ogni nuova attività economica contribuisce alla creazione di ricchezza, ed aumentando il livello di concorrenza sul mercato aiuta anche a tenere basso il livello dei prezzi per i consumatori.

E quale incentivo migliore a tale imprenditorialità che dire loro: “Sappi che se decidessi di intraprendere, e fossi così bravo da riuscire a generare per te un reddito uguale a quello che avevi già assicurato come dipendente, avrai diritto ad una tassazione complessiva molto inferiore, come premio per la tua imprenditorialità!”

Fino a questo momento, invece, nessuno ha mai messo in dubbio il principio dell’equità fiscale “orizzontale”, non considerando adeguatamente la diversa rischiosità e livelli di maggiore/minore incertezza con cui stessi livelli del reddito sono raggiunti.

Senza questi o altri incentivi, a nostro avviso, è probabile che una gran parte dell’Italia continuerà a vivere per altri 30 anni con il “solito” sogno del “posto fisso”. E di questo il Paese certamente non beneficerà.

(1) Arthur Laffer, economista dell’University of Southern California, teorizzò l’esistenza di un livello del prelievo fiscale oltre il quale l’attività economica non è più conveniente e pertanto il gettito fiscale si riduce, anche a causa dell’aumento dell’elusione e dell’evasione fiscale.

Share via
Copy link
Powered by Social Snap