Il più lungo negoziato europeo della storia, ma anche il tempo più breve che ci abbiano mai messo i governanti del vecchio continente a stanziare il più grande volume di risorse mai visto da queste parti. Dei dettagli parleremo, ma sono marginali. Marginali quanti miliardi di scostamento dalle previsioni, marginale se in più o in meno, marginale la governance a cui saranno soggetti i trasferimenti. Ciò che prende la scena, in un lunedì di luglio di quest’anno infernale, è l’enorme passo in avanti compiuto dall’Unione. Per la prima volta i Paesi che la compongono hanno deciso di mettere in comune il proprio debito. Parzialmente, certo. Soltanto una parte di quello futuro e non anche quello pregresso, s’intende. Ma hanno deciso, il che è francamente clamoroso se si pensa che, da una parte, ci stanno i nazionalisti di Visegrad, in questa Europa, e dall’altra i cosiddetti frugali (altro lemma parrebbe più consono, ma vabbè); che un anno fa il governo italiano era intento a spezzare le reni a questa Unione, e che le prime reazioni comunitarie al dilagare della pandemia erano state imbarazzanti. Con buona pace dell’abile negoziatore olandese, tutti hanno chinato il capo di fronte alla proposta della Commissione. L’hanno stiracchiata un po’ qui e un po’ lì ma l’hanno accolta. Praticamente senza fiatare. Non per la nostra bella faccia ma perché quella proposta portava la firma delle prime tre economie dell’Unione. Perché era funzionale al benessere di quelle economie e, di riflesso, a quelle di tutti gli altri Paesi, che con le prime tre sono grandemente e irreversibilmente connesse. Certo, siamo sempre in tempo a dilapidare 209 miliardi di euro: il talento necessario non ci fa difetto e per autolesionismo non siamo secondi a nessuno, ma almeno mai più si dica, e nemmeno si pensi, che l’Europa ci ha ignorati o che starne fuori ci convenga. Se fossimo anche in grado di ben spendere quest’enorme ammontare di risorse (parte non piccola delle quali a fondo perduto) e perfino di mantenere una centralità nelle decisioni europee, onoreremmo la nostra storia e la nostra vocazione comunitaria. Ma non oso sperare troppo.
Praticamente senza fiatare
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