Si chiama odontofobia e in forma più o meno grave ne siamo affetti tutti. Chi di noi va a cuor leggero dal dentista, ammesso che non facciamo parte di quel 20% che è vittima della vera e propria fobia? Chi non le ha tentate tutte pur di evitare la visita dentistica? Antidolorifici, negazione del problema, incontrovertibili impedimenti, chiusura del telefono dopo due squilli: “tanto lo studio non risponde, andrò dopo il fine settimana, dopo Natale, dopo le vacanze, non cadrà il mondo…”. Il mondo no, ma il dente probabilmente sì.
Ma alla fine ci siamo arresi ed eccoci seduti. No, non seduti, prostrati su ciò che impropriamente viene chiamata poltrona, ma che degli attributi di questo termine (comodità rilassamento riposo svago) non ha nulla. Andrebbe meglio sedia elettrica, sedia di tortura. “Riunito” mi dicono è il termine esatto in quanto riunisce tutte le attrezzature necessarie: lampada, faretra, sistema di aspirazione, sputacchiera. Questo l’elenco, le considerazioni le lascio a voi. Aggiungo soltanto che già solo dal punto di vista lessicale ci sono tutti gli elementi per rivolgersi alla Corte di Strasburgo.
Quindi mi trovavo tra la lampada puntata sugli occhi, il rumore metallico di strumenti di cui vedevo i balenii inquietanti, la mascherina dell’assistente, le mani armate di specchietto e uncino del Dottore. La bocca spalancata non so se per il perentorio invito o per la paura, l’aspiratore che più che la saliva mi stava aspirando ogni residuo di dignità. “Si tratta solo di un controllo” mi dicevo. E invece chiara e distinta mi penetra come il trapano la voce del Dentista che mi riassume, in un intreccio di informazione e detto fatto, che bisogna urgentemente estirpare una vite inserita in un molare che è diventata pericolosa.
Ago dell’anestesia e pinza. Il cuore all’impazzata, gli occhi si serrano, le mani stringono i braccioli della “cosiddetta” poltrona. Vorrei urlare No, ma il distanziatore, l’aspiratore, la lingua bloccata non me lo consentono. Vorrei appellarmi al già invocato Codice dei Diritti umani, ma mi accontenterei anche di appellarmi alla pietà, misericordia, carità compassione, commiserazione.
E a quel punto, quando mi pareva di avere toccato il fondo, che cominciai a decifrare il discorso e ancora prima delle parole il suono, la pacatezza, il tono tranquillizzante. Con voce serena parlava di lettura e di libri, del piacere di un pomeriggio trascorso in una biblioteca, di una libreria ricca e rifornita, della fiducia nei classici e del gusto della rilettura, della gioia di scoprire un nuovo autore, degli scrittori amati, di quelli detestati. E poi venne fuori la testata di una rivista e la passione che lo ha spinto a fondarla, e la commistione di argomenti medici e letterari e sociali dei quali è costituita, e il tema monografico di ogni numero, e la storia personale che lo ha spinto a specializzarsi nella assistenza soprattutto dei pazienti più fragili. “Se le fa piacere le darò da leggere alcuni numeri della rivista”.
E io gli suggerirò la lettura di “Alla radice” di Miika Nousiainen, un libro trasgressivo nei confronti dei generi che leggo solitamente. Una storia di mal di denti e non solo. Una storia on the road che parte da una poltrona odontoiatrica sulla quale si è seduto terrorizzato Pekka, il protagonista, che va alla ricerca delle proprie radici (non necessariamente dentali). Un racconto Ironico, spiritoso, profondo, che va “alla radice” insomma, estirpando, curando, salvando. Riconoscendo e apprezzando la diversità, proprio come fa il mio dentista/scrittore.
“Eccola qui, la malefica vite”, me la mostra stretta nella pinza. La vite? Quale vite? Non stavamo parlando di vita?
Patologia: odontofobia più o meno grave
Terapia: niente tè, dopo un’estrazione non è il caso, piuttosto andare “Alla radice” di Miika Nousiainen, Iperborea editore.