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Due popoli, due Stati? Ne manca uno

Due popoli, due Stati. Si dice. Lo dice la politica italiana di fronte al dramma mediorientale, che sembra sempre uguale a sé stesso, ma che è più diverso di quanto appaia. Questo sapore di “déjà vu” del nostro dibattito lascia un senso di frustrazione, perché lava la nostra coscienza mentre recitiamo le nostre cantilene, ma non porta niente di nuovo (e di utile) a chi soffre. È bene porsi il problema ora che si annuncia una tregua che purtroppo rischia di lasciare presto il campo ad altri conflitti armati; una tregua rispetto alla quale Unione Europea e Italia non hanno giocato alcun ruolo.

Due popoli, due Stati. D’accordo, ma aggiungiamo due postille. La prima è che ne manca all’appello uno, di Stati: quello del popolo palestinese. E che la politica di quello che c’è, Israele, rischia di allontanare ogni soluzione “bistatuale”. Lo so, la colpa è dei paesi arabi e dei palestinesi che non accettarono quella soluzione nel 1947 e nel 1967, e di chi ancora oggi predica la distruzione dello Stato d’Israele. Tutto vero. L’ho ripetuto mille volte anch’io. Ed è uno dei tanti motivi per cui anni fa mi sono avvicinato a “Sinistra per Israele”. Ma vogliamo svegliarci e dire che il tempo è passato per tutti, anche per noi?

Oggi le politiche di Netanyahu per la colonizzazione “etnica” di territori che non appartengono allo Stato d’Israele secondo il diritto internazionale rischiano di mettere una pietra tombale su qualsiasi ipotesi di Stato palestinese. Il punto è: come pensiamo di fermarlo? Questo è il problema che condiziona il presente.

Questo vecchio articolo di Giovanni Fontana sul Post demistifica la propaganda anti-israeliana, di chi vorrebbe che l’unico Stato che oggi c’è scomparisse dalle cartine geografiche. Quell’analisi, però, mette in luce che l’attuale aggressività d’Israele non è solo sproporzionata ma mal indirizzata, e rischia di affossare per sempre qualsiasi soluzione. Senza dimenticare che c’è un muro che non viene usato solo per difendersi, ma per alimentare miseria e povertà dall’altra parte.

La seconda postilla è che quella formula non vuol dire che servono due Stati “etnici” ma due società aperte. E la politica di Netanyahu ormai da anni va in un’altra, terribile direzione. Non è solo David Ben Gurion a rigirarsi nella tomba, ma anche Zeev Jabotinsky. Pure la destra israeliana ha sempre sottolineato che la prospettiva nazionale doveva andare a braccetto con l’universalismo dei diritti.

Netanyahu sta rottamando l’ingrediente democratico ed egualitario — nel senso di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge — del movimento sionista. Sancire per legge che Israele è lo “stato nazionale del popolo ebraico” non è stata solo una rivendicazione di principio, ma ha portato a concrete, inumane discriminazioni razziali.

Per questo nella crisi attuale quello che dovrebbe spaventare di più non sono i razzi di Hamas, ma le violenze interne della popolazione araba d’Israele, esacerbate anche del risentimento creato da politiche di apartheid. Per carità: dobbiamo combattere con tutte le nostre forze l’antisemitismo che si cela in tante proteste contro Israele in giro per l’Europa, ma questa denuncia sarà più forte se verrà accompagnata da una condanna concreta, non solo a parole, delle scelte che preparano uno Stato etnico e religioso.

Quando ho visitato Israele e i territori palestinesi per la prima volta, mi ricordo l’ansia che mi aggrediva dopo ogni conversazione, che ruotava intorno a un solo argomento: il fatto che ogni pietra che visitavamo, ogni luogo, dimostrava che “c’erano prima loro” (chiunque fosse il “loro” che parlava). Da noi i giovani dirigenti di partito studiano legge o economia, lì archeologia.

È la storia che non passa, che si fa presenza immanente, ti toglie il respiro e ti impedisce di vivere. L’unico momento (fugace) in cui quell’ansia e quel senso di oppressione mi hanno abbandonato è stato in un campetto di calcio, con bambine e bambini, israeliani e arabi, che rincorrevano insieme una palla. Una palla che corre al posto di pietre che ti schiacciano. La vita che fa capolino.

Forse è il tempo di cambiare come “parliamo” di quel dramma. Perché le parole hanno un loro potere. Dimentichiamoci anche noi un po’ della storia e delle nostre preferenze, e guardiamo negli occhi il presente, per quanto duro e difficile possa essere. E forse è anche il tempo di non limitarci alle parole, ma fare opere che possano raggiungere quelle bambine e quei bambini, aiutarli a costruire un futuro diverso per loro e per le loro terre.

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